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CAPITOLO PRIMO
Inquadramento teorico: la fortuna critica e lo scenario culturale

A volte non vorrei nemmeno vedere i suoi film quando escono. Ma alla fine ci vado, e vederli diventa per me un'esperienza catartica. CRONENBERG appartiene al ventesimo secolo, alla fine del ventesimo secolo. CRONENBERG è qualcosa su cui, sfortunatamente, non abbiamo il controllo, nel senso che non abbiamo il controllo sulla nostra imminente auto-distruzione. Ecco cosa appare così chiaro nel suo lavoro, così spaventoso, così sconvolgente.
MARTIN SCORSESE

CRONENBERG è migliore di noi tutti messi insieme.
JOHN CARPENTER


Quello di DAVID CRONENBERG è decisamente un destino curioso e singolare. Sono rari gli artisti, nel variegato panorama cinematografico contemporaneo, che possono dire di condividere col cineasta canadese la stessa fluttuante accoglienza interpretativa, l'escalation di fortuna critica e il graduale assestarsi di un conclamato status autoriale, quasi da maître à penser, che la sua produzione artistica ha contribuito a rinsaldare. Pochi altri possono eguagliare il suo progressivo allontanamento dalle panie ristrette dell'orbita horror, in cui la critica internazionale lo aveva da principio relegato, per poi raggiungere un tale salvacondotto critico che gli ha consentito di competere con i più autorevoli e innovativi registi di questi ultimi anni. Ancora meno sono quelli che possono guardare alla propria opera come ad un denso work in progress che accentra su di sé studi e teorie estetico-epistemologiche capaci di guardare alla macchina cinema con occhi nuovi.
Soprattutto, la più specifica valenza fisionomistica di CRONENBERG sembra essere quella di un autore che ha riflettuto più a fondo di molti altri suoi colleghi - questi ultimi in maniera forse più evidente e spettacolare, ma cavalcando invero mode sterili ed effimere - sul suo lavoro, sul linguaggio non solo cinematografico, ma sul linguaggio tout court, precipuamente sul nuovo rapporto instauratosi fra il racconto cinematografico concepito come esperienza di fruizione passiva e il nuovo ruolo attivo dello spettatore - quest'ultimo recipiente privilegiato di nuove formulazioni teoriche e assurto a nuovo statuto interpretativo - così fondando un'inedita ritualistica dell'esperienza partecipativa allo spettacolo, in un rapporto circolare d'intervento creativo fra autore - opera - spettatore.
Oltrepassata la tradizione meccanicistica ottocentesca, che in buona sostanza vedeva nel sistema comunicativo nient'altro che un emittente che inviava un messaggio ad un ricevente, CRONENBERG si muove ed agisce su un terreno che fa dell'attività stessa dell'osservazione un punto focale e privilegiato; principio abbracciato anche da tutte le moderne discipline semiologiche, che esercitano un'inedita contrattazione dei significati, un'ermeneutica complessa ed inglobante, dispiegata sull'intero spettro dinamico e performativo del processo comunicazionale.

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Il sintetico profilo tratteggiato per descrivere le altalenanti vicende legate alla sua fortuna critica, affrontata qui a grandi linee e a mo' d'introduzione storicistica, ci è sembrato necessario per valutare i più vari interessi teorici che hanno circondato la sua produzione, i legami più o meno produttivi che il nostro ha intrecciato con le correnti cinematografiche a lui più vicine, il suo personale ripensamento critico dei generi e delle categorie formali del linguaggio filmico; si avrà, in questo modo, uno sguardo veloce ed agile, a volo d'uccello, sulla progressiva focalizzazione delle sue tematiche, sullo scambio sempre fluido tra le urgenze artistiche personali e l'influenza dello scenario intellettuale, sul rapporto mutuale ed imprescindibile tra le sue più intime istanze espressive e gli inevitabili condizionamenti dell'industria culturale.
Si evidenzierà altresì l'indubitabile influenza delle sue proposte estetiche e concettuali non solo in mero ambito cinematografico ma, con una lungimiranza e protervia progettuale pari alla sua riuscita spettacolare, anche e più in generale in tutti gli ambiti teorico-critici che hanno guardato a CRONENBERG con crescente interesse e feconda partecipazione, che si tratti di nuove correnti estetico-interpretative o di discipline di primo acchito più periferiche e peregrine rispetto ai terreni canonici degli studi cinematografici, come la sociologia o l'antropologia, in particolare quella visuale. Un background culturale saturo di fermenti e di stimoli, un panorama estremamente sfaccettato, talvolta persino frastornante, uno scambio ininterrotto e convulso di paradigmi, di inferenze, di modelli, di formulazioni, di competenze tutte rigorosamente multidisciplinari; uno straripare sistematico di suggestioni concettuali da un campo ad un altro, senza soluzione di continuità.
In tutto questo bailamme gnoseologico CRONENBERG gioca, come si vedrà, un ruolo di primo piano.

 

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Sul finire degli anni Settanta il nome di CRONENBERG circola soltanto tra una ristretta élite di cinefili specializzatinell'ambitofanta-horror, che proprio in quel periodo trova un'inaspettata reviviscenza nel cinema spettacolar-hollywoodiano.
Il tentativo di depurare l'horror dalle pastoie stantie di una narrativa ormai frusta, di affrancarlo da tutti quegli ammennicoli iconografici ormai fatalmente giunti a saturazione, non rappresenta soltanto una pratica di rinnovamento formale, ma rientra in una rivalutazione complessiva delle retoriche e dei processi di visione della settima arte; il cinema di genere si palesa, in questa prospettiva, come un serbatoio di topoi narrativi e di idee visuali ad alta formalizzazione, capace per questo di veicolare con più penetrante incisività i nessi tematico-linguistici di una pratica spettacolare che appare sempre più consapevole del proprio statuto e della propria ontologica ragion d'essere. E' proprio sullo stilema immediatamente riconoscibile e sul luogo comune narrativo che si può più facilmente marcare uno scarto interpretativo fra passato del cinema - visione unidirezionale del racconto, usuale focalizzazione esterna del narratore extra-diegetico, riproduzione ad libitum degli stessi procedimenti operativo-stilistici, rapporto frontale e "bloccato" fra spettatore e opera - e il suo ancora imprevedibile futuro - innesto nel testo usualmente omogeneo dell'opera di materiali di provenienza eclettica, smontaggio degli ingranaggi sintattico-espressivi interni al film, celebrazione di vezzi autorali come marchio di fabbrica del regista anche nell'ambito di un codice linguistico formalmente conchiuso.
Che tutta la new-wave del cinema americano, e non solo americano, utilizzi come viatico espressivo proprio il cinema horror o l'exploitation fantastica, non sembra essere fattore dovuto solo a circostanze economico-produttive - abbassamento dei costi di produzione, organizzazione distributiva più ricettiva nei confronti di un genere appetito con sempre maggiore voracità da un pubblico di teen-ager, individuato come target primario dai nuovi executive delle case di produzione - ma anche, come detto sopra, per istituire un più facile e smaliziato termine di paragone fra una prassi comunicativa fatta di convenzioni e di regole e una sistematica inclinazione allo scardinamento e alla frantumazione dei suoi plessi tematico-stilistici.
Un genere, quello horror - ma è chiaro che il discorso può essere esteso a tutta la produzione del fantastico più o meno "goticheggiante" - che contiene in potenza tutte le possibilità combinatorie, e non solo a livello piattamente narrativo, di mescolanza ed ibridazione, che diventeranno quasi la prassi rappresentativa del cinema contemporaneo, anche d'autore. Fino ad allora i critici si limitano a mettere in evidenza un tentativo, tentato da più parti, di svecchiamento dei logori stilemi del passato, confondendo, in un unico calderone, diverse personalità che finiranno per trovare strade del tutto personali.
Se la "rivoluzione" è fatta unanimemente risalire a ROGER CORMAN, propugnatore instancabile di un cinema a basso costo e dalla riuscita spettacolare, specialmente con le sue riduzioni cinematografiche dei racconti del terrore di EDGAR A. POE realizzate negli anni Sessanta, saranno alcuni suoi sodali all'interno della factory e altri giovani parvenus del cinema di genere (magari non direttamente appartenenti alla scuola cormaniana, ma rapportabili per filiazione produttiva e stretta influenza estetica) ad innescare quei processi di rinnovamento tanto audaci ed originali da far acquisire una nuova facies al cinema di quegli anni.
Ci sono nomi che ricorrono spesso nelle recensioni ingenuamente disponibili del periodo (ci si riferisce ad un lasso di tempo compreso fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta); la stampa specialistica accoglie la venuta di una nuova leva di cineasti capaci di immettere nuova linfa nel genere. Sulla scia inaugurata, con un buon quindicennio d'anticipo, dal futuro auteur del cinema hollywoodiano FRANCIS FORD COPPOLA, che fa il suo ingresso nel cinema di lungometraggio con Dementia 13 (Terrore alla tredicesima ora, 1963), gothic movie riciclato sul set di un precedente slasher cormaniano, si muovono JOE DANTE, con i parodistici Piranha (Piraña, 1978) e The Howling (L'ululato, 1980), JOHN SAYLES, soprattutto nell'ambito della sceneggiatura - suoi gli script di Battle Beyond the Stars (I magnifici sette nello spazio, 1980) di JIMMY TERU MURAKAMI e di Alligator (id., 1980) di LEWIS TEAGUE - il tuttofare JAMES CAMERON, che si fa le ossa principalmente nel bric-à-brac degli effetti speciali, e la varia tribù dei mestieranti che comprende, fra gli altri, ALLAN ARKUSH, COREY ALLEN, AARON LIPSTADT. Provengono, tutti i citati, dalla scuola di CORMAN, straordinaria fucina di talenti in erba, preziosa bottega di artigianato di genere; ma il loro approccio, checché ne dicano i fin troppo condiscendenti critici di certe testate, è ancora troppo indebitato con le forme rappresentative di un cinema che appartiene in tutto e per tutto al suo passato, perché si possa parlare di un vero e proprio rinnovamento; un rinnovamento che s'avverte principalmente grazie ad alcuni eclatanti e chiassosi procedimenti stilistici debitori di nuove mode manieriste.

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Per quanto riguarda invece il versante extra-cormaniano, e cioè l'assoluta minoranza dei registi del fantastique che non è stata ufficialmente cooptata all'interno della "New World Pictures", si rivolge il saluto convinto ai vari JOHN CARPENTER, RIDLEY SCOTT e WES CRAVEN, esimi cantori della congiuntura neo-gotica impostasi sul giovane cinema di Hollywood. Il primo, rivelatosi con Assault on Precint 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976) e Halloween (Halloween: la notte delle streghe, 1978), poi consacratosi definitivamente grazie a The Fog (Fog, 1980), Escape from New York (1997 - Fuga da New York, 1981) e lo spaventoso The Thing (La cosa, 1982), si misura con un'idea di cinema come immaginario di situazioni ed immagini, degradabili e scomponibili fin nei minimi tasselli, per poi ricomporle, come in un prezioso meccano, in infinite combinazioni ad incastro.
Il secondo, prima in Alien (id., 1979) e poi, più significativamente, in Blade Runner (id., 1982) - quest'ultimo meno confrontabile rispetto al genere horror, ma rivelatore di un nuovo gusto cinematografico che abbraccia indiscriminatamente generi e correnti della koinè fantastica, senza soluzione di continuità - innesta in tessuti di racconto desunti dal gotico e dal poliziesco, svariate contaminazioni estetiche ed accumulazioni iconografiche d'eclettica provenienza, vuoi dalla pubblicità, vuoi dal fumetto, dando vita ad una nuova strutturazione di racconto come patchwork multicolore e pluri-stratificato.
WES CRAVEN, infine, prima con The Last House on the Left (L'ultima casa a sinistra, 1972) e The Hills Have Eyes (Le colline hanno gli occhi, 1978) poi soprattutto con A Nightmare on Elm Street (Nightmare - Dal profondo della notte, 1984) - divagazione metalinguistica ed autoreferenziale sul ruolo dell'horror nella società contemporanea, antesignano di numerose propaggini e varianti come Wes Craven's New Nightmare (Nightmare - Nuovo incubo, 1994) e Scream (id., 1998) - usa una variante narrativa del vecchio tema del bogey-man, per un'analisi dei rapporti sottili fra realtà ed immaginazione, utilizzando la visione cinematografica come dispositivo metonimico fra i vari piani della percezione del reale. Ma i nomi che si staccheranno decisamente dal genere, usato soltanto come efficace pretesto per visionarie sperimentazioni sull'immagine, intraprendendo successivamente un riconosciuto percorso autonomo e personale, sono quelli di GEORGE ROMERO, BRIAN DE PALMA, DAVID LYNCH.
È di ROMERO il merito di aver introdotto per primo, nell'ambito horror, il personaggio dello zombie, nuova figura di vampiro nato dal malessere e dalla disperazione dell'era consumistica, più assetato forse di rivalsa sociale che del sangue delle sue vittime; la sua trilogia dei morti viventi si inizia con il classico Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), eclatante antesignano della corrente più trucida e grandguignolesca del new-horror, prosegue poi con il sarcasmo ghignante e atrabiliare di Dawn of the Dead (Zombie, 1978) e finisce con l'episodio più politicamente inquadrato, più moralmente connotato del trittico: Day of the Dead (Il giorno degli zombie, 1985).
DE PALMA costruisce un magmatico metatesto che ha come diretto referente il corpus cinematografico hitchcockiano, amplificando però il carattere patologico e morboso della dimensione voyeuristica, sia inter sia extra diegetica, e fondando sovente la sua drammaturgia filmica a partire da un complesso gioco gestaltico sul labirintico polimorfismo dei meccanismi della visione: si confrontino, fra gli altri, Sisters (Le due sorelle, 1972), Carrie (Carrie - Lo sguardo di Satana, 1976), Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980), Body Double (Omicidio a luci rosse, 1984).
Le stordenti visioni di LYNCH hanno in realtà rapporti palesemente periferici col genere orrorifico - e un'opera come Eraserhead (Eraserhead - La mente che cancella, 1977) è un oggetto "metafisico" ed estraneo ad ogni tipo di classificazione - connotandosi piuttosto come inquietante agnizione delle abnormi difformità oniriche singolarmente consustanziate alla realtà, che sia quella dell'Inghilterra vittoriana - con il celebre The Elephant Man (Elephant Man, 1980) - ovvero della provincia americana contemporanea - da Blue Velvet (Velluto blu, 1986) fino al recente Lost Highway (Strade perdute, 1997).
La propensione all'horror con implicazioni engagé di velenosa critica sociale mostrata da ROMERO, la riflessione metalinguistica e le teorizzazioni sui processi e le metodologie della comunicazione visuale affrontati da DE PALMA, le angosce esistenziali di un mondo costantemente sull'orlo della follia descritte con innegabile piglio d'autore e potenza poetica da LYNCH, mostrano come ci si trovi già fuori dal genere. Ciò nonostante la critica faticherà non poco prima di accorgersi della portata innovativa e personale di alcuni esponenti della presunta scuola horror degli anni '70, il cui cinema non cesserà di influenzare tutta la successiva generazione di cineasti della New-New Hollywood.
Questi ultimi, proseguendo sui terreni, vuoi del gotico - il TIM BURTON di Batman (id., 1989), Edward Scissorhands (Edward mani di forbice, 1990) e Sleepy Hollow (Il mistero di Sleepy Hollow, 1999) - vuoi della fantascienza - il JAMES CAMERON regista di The Terminator (Terminator, 1984) e di Aliens (Aliens - Scontro finale, 1986) e la sorpresa KATHRYN BIGELOW con il millenaristico Strange Days (id., 1996) - legittimeranno la tendenza di un intero cinema a confrontarsi con la spettacolarità del genere, soprattutto per parlare, metalinguisticamente, sempre più di sé stesso.

 

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All'epoca, DAVID CRONENBERG, ancora confusamente immerso, a detta della critica mainstream, nella congerie nebulosa di quel cinema, sembra tracciare un percorso più personale vuoi grazie alla sua formazione accademica e alla sua provenienza geografica - è figlio d'intellettuali d'origine ebraica, ha studi universitari di biologia e letteratura alle spalle (passa, emblematicamente, tutti gli anni dell'adolescenza a leggere e scrivere racconti fantastici e dell'orrore nella preziosa cornice della sua raffinata casa borghese di College Street, letteralmente sommersa, grazie alle eterogenee attività letterarie del padre giornalista e bibliofilo, da una marea di volumi sistemati in precarie colonne che arrivano a toccare il soffitto), per di più è canadese (nasce il 15 marzo del 1943 a Toronto in un quartiere animatamente popolato da una vivace ed eteroclita compagnia di immigrati turchi, italiani, ebrei e irlandesi) e il cinema horror e fantastico in Canada, contigua provincia dell'impero culturale americano, nascono con lui - vuoi soprattutto per l'approccio ostentatamente fisio-biologico che è sotteso alle trasfigurazioni teratologiche dei suoi film, e che induce gli addetti ai lavori a coniare, per il suo cinema, l'etichetta di "horror corporeo".
The Parasite Murders (Il demone sotto la pelle, 1975) e Rabid (Rabid - Sete di sangue, 1977), esordi cronenberghiani nel lungometraggio, per i critici di "Fangoria" e "Cinéfantastique", al tempo, sono solo due interessanti variazioni sul tema del vampirismo. Non ci si accorge ancora che il contrasto esasperato fra algida rigidezza del décor metropolitano e stordenti pulsioni vitalistico-sessuali prelude a qualcosa di diverso. La sua comincia ad essere, fin dai primi film, una ricognizione delle metamorfosi antropologico-sociologiche dell'uomo moderno, affrontata con un atteggiamento stilistico che già preannuncia segni inequivocabili di novità.
Tali segni ricevono dovuta attenzione e riconoscimento, dopo l'ordinario e sterile Fast Company (t.l.: Scuderia della velocità, 1979), fantasioso divertissement sulle corse dei dragsters che sta a cavallo tra l'esercizio di genere e il velleitarismo pop-art, soprattutto con The Brood (Brood - La covata malefica, 1979) e Scanners (id., 1981). La critica più attenta, in special modo quella francese di "Positif" e dei "Cahiers du Cinéma", non può più esimersi dall'accordare a CRONENBERG quella parvenza d'autore che fino allora gli era stata negata. Tutti gli elementi d'interesse dei suoi primi film vengono come amplificati e sublimati da una concezione cinematografica più solida e consapevole, i temi acquistano in profondità espressiva e concettuale, l'uso del mezzo dimostra una padronanza artistica ormai raggiunta. Gli esuberanti appellativi, le strambe etichette affibbiategli dai critici, in virtù delle suggestive atmosfere e delle bizzarre figurazioni dei suoi primi lungometraggi, cominciano ad apparire sempre più limitanti e fuori luogo. È ora possibile, in buona sostanza, guardare a CRONENBERG con diversa pregnanza critica, nonostante sia proprio in questo periodo che il regista abbraccia, senz'altre esitazioni, la strada del cinema "commerciale".
Col successo aumenta la penetrante natura provocatoria - qualcuno ha persino detto "virologica" - della sua proposta artistica, quasi che CRONENBERG fosse fisiologicamente consapevole dell'inevitabile compromesso merceologico dell'arte nella modernità del villaggio globale. The Brood è uno straziante psicodramma ammantato di effetti gore - a sentire le parole del regista, una sorta di versione "psicosomatica", e perciò più lucida e credibile, dei temi affrontati, con lacrimevole ridondanza, nel coevo Kramer vs. Kramer (Kramer contro Kramer, 1979); pur tuttavia emergono, in maniera inequivocabile, alcune tematiche e stilistiche personali che saranno ricorrenti nella sua opera a venire: il rapporto corpo-mente, con nuova valenza autonomistica attribuita al secondo termine, il superamento di uno status biologico dell'individuo tramite poteri cerebrali, una costante analogia tra corpo-umano e corpo-sociale, interessati dagli stessi effetti dinamici e virali; il tutto osservato con un distacco quasi entomologico, una ricchezza di prospettive filosofico-speculative e una suggestiva ambiguità epistemologica che denunciano una fisionomia d'autore ormai indubitabile.
In questo senso, la costanza dei temi e dei modi di rappresentazione suggerisce di guardare ai due film sopra citati come ad un vero e proprio dittico, ritornando in Scanners la dicotomia mente-corpo, riassorbentesi in una nuova visione totalizzante dell'uomo, l'uso spregiudicato della scienza genetica da parte di multinazionali senza scrupoli pronte ad "infettare" il corpo-società, una costruzione drammatica del personaggio che risponde a criteri più fenomenologico-esemplificativi che psicologico-rappresentativi.
Bisognerà attendere tuttavia altri due anni, prima che si riveli in tutta la sua pienezza enunciativa il pensiero di CRONENBERG, segnando la totale riuscita artistica di un film che è tuttora visto dalla maggior parte dei suoi esegeti come il suo capolavoro. Videodrome è un film spartiacque nella carriera del regista, se non all'interno della sua opera, certamente nella ricezione critica della stessa. Un'opera capace di cancellare gli indebitamenti ingombranti nei confronti del cinema di genere, per acquistare invece una sua valenza autonoma, e non soltanto in ambito cinematografico. La critica si trova spiazzata di fronte a Videodrome, impossibilitata a ricondurlo non solo ad un preciso genere di cinema, ma a qualsivoglia manifestazione artistica corrispondente.
Se anche c'erano stati esempi narrativamente analoghi - si pensi a Altered States (Stati di allucinazione, 1980) di KEN RUSSEL, a La Mort en direct (La morte in diretta, 1980) di BERTRAND TAVERNIER oppure al sottovalutato Brainstorm (Brainstorm - Generazione elettronica, 1981) diretto dal mago degli effetti visivi DOUGLAS TRUMBULL - la dimensione speculativa del progetto cronenberghiano perviene a livelli di precisione epistemologica e suggestione concettuale mai prima d'allora raggiunti. Il nascente rapporto fra reale e virtuale, il potere fascinatorio dell'immagine, il nuovo paesaggio sociale determinato dall'ingombrante pervasività dei nuovi media, sono indagati con una tale ricchezza di prospettive e una capacità critica così penetrante da fare di Videodrome un'esperienza assolutamente unica.
Così capita che da questo momento è tutto un correre indietro a rintracciare un'omogeneità contenutistica, ovviamente rinvenibile fin dall'inizio, in tutta la sua produzione e a concedergli uno statuto d'autore a tutto tondo, precedentemente eluso da una critica troppo distratta a classificare il suo cinema solo sulla base di rinnovamenti stilistici all'interno del cinema di genere. Proprio in quegli anni poi, attecchiscono teorizzazioni estetico-filosofiche che sembrano trovare in CRONENBERG il loro interprete privilegiato: la piega postmoderna abbracciata dal cinema spettacolare, il sorgere del movimento cyberpunk nella letteratura, le nuove estetiche legate alle dinamiche mutagene del corpo con la vertiginosa coscienza di un'identità in pericolo, l'influenza di nascenti forme di neo-misticismo all'interno della società postindustriale. Quando, con The Dead Zone (La zona morta, 1983), CRONENBERG usufruisce del palinsesto narrativo del best-seller di STEPHEN KING, si fa un gran parlare di personalizzazione d'autore della narrativa di consumo: lo sbiadito personaggio principale del romanzo, dotato di straordinari poteri cerebrali, diventa addirittura una metafora del nuovo corpo massmediale, così come l'intreccio di diverse focalizzazioni narrative si tramuta in ambigua pluralità della visione.
Dell'avvenuta conquista di un'identità d'autore è testimonianza la successiva produzione del regista, capace di ritornare con sicurezza al cinema horror senza la paura di rimanerne invischiato - con l'esempio eclatante di The Fly (La mosca, 1986), remake di un B-movie degli anni cinquanta nobilitato dalla modernità della concezione e dall'ambizione della messa in scena - ovvero di liberarsi completamente dagli stilemi di un cinema degli effetti speciali con il celebrato Dead Ringers (Inseparabili, 1988), claustrofobica e implacabile perlustrazione sul tema del doppio.
Oramai è chiaro che i compartimenti stagni, che una volta dividevano la produzione cinematografica in generi e correnti, per CRONENBERG non hanno più ragion d'essere; il suo cinema riesce infatti a convogliare in mille rivoli i diversi slittamenti narrativi di un discorso affatto personale, capace di confrontarsi con i materiali estetici più disparati, generando nuove simbologie e nuove prospettive semantiche su vecchi terreni espressivi.
Il momento della consacrazione d'autore arriva con la messa in scena dei suoi demoni, con il concretizzarsi sulla pellicola delle fantasie e delle idiosincrasie che l'avevano ossessionato fin dagli anni dell'adolescenza; CRONENBERG non può più esimersi dal confronto diretto con il suo nume tutelare WILLIAM BURROUGHS in Naked Lunch (Il pasto nudo, 1991), parossistico dispiegamento d'atmosfere allucinogene e ibridazioni narrative, vertiginoso parallelo fra avanguardia letteraria beat e avanguardia del cinema, illustre e persuasivo prodromo di cinema "totale".
Una sperimentazione autoriale che prosegue con la ripresa di una celebre pièce teatrale come M. Butterfly (id., 1993) per un percorso rivelatore fra le pieghe nascoste del desiderio e della sessualità, una sessualità quasi de-corporeizzata e "di testa", per finire con un nuovo omaggio alla letteratura underground con il provocatorio e scandalistico Crash (id., 1996), tra fantascienza sociologizzante, atmosfere cyberpunk, erotismo macchinico, richiami alla trash culture ma soprattutto visualizzazione di forme di pseudo-religiosità feticistico-consumistica; il tutto mutuato dal romanzo culto di JAMES G. BALLARD, pregevole esponente della moderna letteratura fantastica a cui CRONENBERG, per comunione d'intenti e coincidenze espressive, è stato spesse volte accostato.
Pagato lo scotto alla cultura "alta" e a forme più elevate d'espressione, esorcizzata la deferenza verso i materiali colti, ci si può muovere su un terreno totalmente autonomo, verso una concezione di racconto così spericolata ed ardita che sembra preannunciare, o forse già preannuncia, un nuovo cinema, e quindi un nuovo immaginario: eXistenZ (id., 1999)
DAVID CRONENBERG è oramai diventato sinonimo di un modo di fare ed intendere cinema assolutamente originale, un innovatore instancabile del linguaggio cinematografico, un carismatico ed influente guru massmediale, un attento indagatore della nuova realtà tecnologica che ingloba l'arte nei suoi irriducibili meccanismi riproduttivi, un lucido ed acuto teorico delle metamorfosi in atto nella cinematografia contemporanea, uno sperimentalistico esploratore delle labirintiche possibilità dello sguardo negli attuali processi della visione.

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Per contestualizzare tanta novità di prospettive si è cercato di ancorare CRONENBERG a varie correnti estetiche, di rintracciare le sue influenze in campi che esulano da immediate ottiche cinematografiche, di mettere in luce certe analogie tematiche che il Nostro intrattiene con le più recenti analisi interpretative della modernità. Ecco allora che la natura metalinguistica del suo cinema trova consonanze illuminanti con numerosi studi sulla comunicazione massmediale (i pionieristici studi dell'autorevole MARSHALL MCLUHAN sulla globalizzazione e l'imprevedibilità dei nuovi media oppure il regime schiacciante della simulazione, l'inflazione iconica, l'estetizzazione che annienta il processo creativo paventate da JEAN BAUDRILLARD , ma anche la vacuità elettronica e il nirvana dromologico di HANS MAGNUS ENZENSBERGER e di PAUL VIRILIO ); la sfida espressiva a favore di una pluralità della visione, di una realtà prismatica e composita segue, con autorità, il cammino filosofico intrapreso con la metodologia della complessità (EDGAR MORIN ); gli stupefacenti poteri mentali dei suoi personaggi possono essere visti come corrispettivo metaforico-drammatico di certe formulazioni di neo-animismo antropologico (GREGORY BATESON ); il meticciato, la contaminazione, l'ibridazione dell'immaginario (con il plusvalore sensuale ed edonistico che gli attribuisce PERNIOLA ), risultante dall'orientamento postmoderno intrapreso dall'arte contemporanea, di cui CRONENBERG è accreditato come eccellente rappresentante, diviene terreno d'analisi di diversi studiosi dagli orizzonti interdisciplinari (la proposizione di una ermeneutica di carattere eminentemente semiotico, la dignità speculativa di una "logica" non sequenziale, puntiforme e asistemica secondo JEAN-FRANÇOIS LYOTARD , la frantumazione delle categorie della modernità a seguito della dittatura capitalistica preconizzata nei saggi di FREDERICK JAMESON ); i nascenti landscape virtuali e il nuovo statuto della cultura dell'immagine nella realtà attuale, oltre che ai film del regista canadese, forniscono materiale speculativo a nascenti discipline accademiche (come l'antropologia della comunicazione visuale, che si interroga sui nuovi modi testuali della rappresentazione, inseguendo le formulazioni di diversi studiosi anglosassoni come MARCUS & FISCHER e CLIFFORD , da noi "tradotti" e divulgati grazie all'eterodossia metodologica e alle proposte temerarie di un MASSIMO CANEVACCI ).

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Contrariamente alla maggior parte dei registi che hanno operato negli anni Settanta e negli Ottanta, CRONENBERG non ha mai fatto professione di cinefilo né rivendica ascendenze propriamente filmiche. La sua solida educazione culturale, da gourmet della letteratura e del cinema più oscuro e disturbante, è quanto di più lontano si possa pensare della generica voracità per la spazzatura televisiva e per il cinema fast-food di un regista medio hollywoodiano, tant'è che i diretti referenti artistici della sua opera non andranno trovati tanto nel cinema - semmai si possono indicare esperienze influenzate da quest'ultimo: pensiamo alla quête ascetica di WIM WENDERS per una immagine psichica ed interiore in Until the End of the World / Bis ans Ende der Welt (Fino alla fine del mondo, 1991), al febbricitante trip che la BIGELOW concede allo spettatore nel già citato Strange Days (un vero sabba della visione, un marasma dionisiaco dei sensi generato e garantito dallo squid, l'entertainment definitivo, la meraviglia immersiva che permette l'esperienza della morte per procura), per non tacere, infine, di certi recenti esempi di modaiolo cinema "virtuale" come l'acrobatico The Matrix (Matrix, 1999) dei fratelli ANDY & LARRY WACHOWSKI, gli infografici The Lawnmover Man (Il tagliaerba, 1992) di BRETT LEONARD e Johnny Mnemonic (id., 1997) di ROBERT LONGO, quest'ultimo sceneggiato da WILLIAM GIBSON, o l'autarchico Nirvana (1996) di GABRIELE SALVATORES - quanto piuttosto nella letteratura - le sperimentazioni linguistiche, la frantumazione narrativa del cut-up, la nevrosi e la vertigine che informano ogni atto creativo sono presi direttamente da WILLIAM BURROUGHS, la spietata e grottesca lucidità di sguardo nei confronti del rimosso e del perverso provengono da VLADIMIR NABOKOV, l'erotismo libertario, l'esuberanza depravata si trovano in HENRY MILLER, la schizoide e tumultuosa ambiguità della percezione è presente nelle pagine di PHILIP K. DICK. Ciò a dimostrazione di un'unicità espressiva e una lungimiranza teorica che pongono CRONENBERG al centro di diverse correnti concettuali senza che sia in ogni caso riassumibile in nessuna di queste.

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Il suo è un cinema che parla di nuove realtà psico-biologiche e nuove dinamiche mutagene, di profani "matrimoni" tra l'uomo e la macchina, dell'invadente pericolosità dei mezzi di comunicazione nell'inedita noosfera cibernetica determinata dalla società capitalistica, ma soprattutto ci parla del nostro nuovo ruolo di sprovveduti spettatori di fronte ad un mondo che tende a miscelare vorticosamente modelli reali e immagini virtuali.
Conoscere più a fondo l'opera di DAVID CRONENBERG significa allora gettare uno sguardo necessario e dovuto ad una realtà, come quella attuale, attraversata da fenomeni estetici non ancora ben analizzati, da una sempre più stordente e invadente stratificazione semantica di materiali pluri-linguistici i più compositi, da un'endemica incertezza epistemologica generata dall'inevitabile disgregazione ontologica del nuovo assetto massmediale del pianeta; ma soprattutto significa analizzare le diverse dinamiche venutesi a creare fra il nuovo statuto, multiforme e decentrato, dell'immaginario contemporaneo e il nuovo ruolo, necessariamente più interattivo e partecipe, dell'esperienza spettatoriale.


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