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CAPITOLO TERZO
La videoarena del visuale proteiforme, ovvero: il grado zero della metafora



C'è qualcosa nella natura del nastro, nella grana dell'immagine, nei toni barbuglianti del bianco e nero, nella sua essenziale crudezza, che ti fa pensare che sia più reale, più aderente alla vita di tutto ciò che ti circonda. Le cose che ti circondano sono meno immediate, sembrano provate e ritoccate davanti allo specchio, abbellite dai cosmetici. Il nastro è iperreale, o forse sarebbe più appropriato dire subreale. È ciò che rimane sul fondo scrostato di tutti gli strati che hai aggiunto. E questo è un altro dei motivi per cui continui a guardare. Il nastro è di un realismo folgorante.
DON DELILLO

Nel prossimo secolo del cinema, il rispetto dello spettatore, come elemento intelligente e costruttivo, sarà inevitabile. Per arrivare a ciò è necessario forse allontanarsi dal concetto secondo cui il regista è l'artefice assoluto. Bisogna che il regista sia anche lo spettatore del suo film. Il cinema durante cento anni è appartenuto ai registi. Speriamo, perché i tempi sono maturi, che si faccia intervenire lo spettatore nel secondo secolo di vita del cinema.
ABBAS KIAROSTAMI


Videodrome è metamorfosi in divenire della visione. Trasformazione in diretta del nostro sguardo di spettatori alla deriva, della nostra già instabile percezione del mondo. Videodrome è l'hic et nunc delle mutanti decodifiche sensoriali; è il sorgere di embrionali canali ricettivi e di anomali apparati di decodifica del corpo che spingono, inesorabilmente, verso un'immersione radicale dell'essere nella proteiforme consistenza di un immaginario sempre più vivo e pulsante. Videodrome è il fulcro irradiante, il centro di gravità dell'opera cronenberghiana, il punto di convergenza e d'arrivo di tutte le coordinate tematico-stilistiche già tracciate dalla precedente produzione del regista, ma che trovano qui la loro più convincente espletazione: inesauribile dispositivo generatore di segni concettuali, serbatoio di formulazioni critiche sulla nuova natura del mezzo cinematografico, inquietante saggio massmediale, diagnosi di un nuovo assetto globale della comunicazione, manifesto filmico di un cinema che si vive in prima persona, breviario fondamentale del nuovo Verbo.
Videodrome è tutto questo e molto altro ancora.

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Per evitarci sospetti di lezioso formalismo e di fatua propensione alla simmetria, basterà dire della centralità teorica ed espressiva che Videodrome assume all'interno del corpus cinematografico cronenberghiano, così legittimando la decisione di inserire strategicamente il seguente capitolo al centro di questo lavoro: la scaturigine unica di tutti i percorsi interpretativi e delle proposte critiche affrontate nell'intero corpo di questo studio è da ricercarsi in questo preciso film. Le parti che lo precedono e gli interventi che seguono ne sono, sostanzialmente, un riflesso teorico. Esaustivo florilegio dell'universo artistico del regista, Videodrome è anche un capiente ricettacolo ermeneutico, in cui sembrano confluire armoniosamente divagazioni filosofiche, ipotesi socio-antropologiche e nuove prospettive estetiche.
Al fine di visualizzare, con sufficiente chiarezza, l'intima natura polisemantica del film, per enucleare compiutamente tutte le sue problematiche, ci è sembrata soluzione adeguata una dettagliata analisi descrittiva; metodologia che garantisce l'agevole dispiegarsi di una disamina filmica, condotta, per quanto possibile, seguendo la cadenza ritmica dell'opera e il preciso avvicendarsi delle sue sequenze, e soprattutto concepita per fornire al lettore, al di là di una necessaria sinossi (utile guida per non perdersi nei meandri narrativi della vicenda), una solida griglia concettuale di partenza; impostata la quale, ci si muoverà per una ricognizione delle numerose proposte critico-interpretative che hanno interessato la pellicola del regista canadese e per proporne poi i possibili punti di contatto con le più disparate formulazioni multidisciplinari. Dal testo al contesto, dunque, assecondando il disegno a rizoma delle svariate applicazioni teoriche che un'opera come Videodrome ha finito necessariamente col generare.

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Si chiamerà in causa l'indulgenza del lettore per le digressioni, che ci siamo a volte permessi, nel far riferimento a talune sequenze di eXistenZ, poiché, se anche lederanno l'omogeneità di una analisi, che si è voluta sistematica e monografica, dell'opera citata in esergo, ci sono sembrate tuttavia assai opportune per una comprensione globale dei temi trattati; vuoi perché l'ultimo film di CRONENBERG appare come un indispensabile aggiornamento teorico di Videodrome, una postilla imprescindibile del pensiero del regista in materia di virtualità e nuove elaborazioni iconografiche, una inevitabile estensione ermeneutica nei territori più rappresentativi del consumo visuale - dalla fascinazione ipnotica dell'arena televisiva all'interattività convulsa dei videogame - vuoi soprattutto per delineare, con diacronici termini di paragone, l'evoluzione estetica e concettuale di un nuovo modo di pensare e raccontare il cinema, frutto dell'indubitabile coerenza di un autore capace di usare il medium espressivo come un dispositivo filosofico e linguistico di straordinaria efficacia, per sondare il sempre mutevole rapporto fra l'uomo e il suo riflesso, fra lo sviluppo socio-antropologico e le dinamiche culturali in cui tale sviluppo si viene ad inscrivere, fra i meccanismi dell'intelligenza creatrice e le forme delle sue rappresentazioni. Per questo CRONENBERG ci appare oggi come uno dei pochi cineasti in grado di farci assaporare, con stordente anticipazione, quello che ci riserva il futuro. Non solo il futuro dell'arte, ma anche il futuro dell'uomo.

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Il film si apre su un'immagine televisiva: la "Civic TV - il canale che vi portate a letto", con tanto di sigladall'infantile jingle introduttivo e rozza grafica da fumetto impertinente, apre le sue trasmissioni del mattino; il procedimento stilistico atto a far coincidere, e quindi confondere, lo schermo TV con la totalità dello spazio cinematografico non ha pretese di originalità (ricorre sovente, ad esempio, nei film di BRIAN DE PALMA dove genera vere e proprie vertigini del senso e produce un feedback percettivo dello sguardo in riferimento ai diversi mezzi comunicativi impiegati) ma l'efficacia della trouvaille risulta sia dalla decisione di servirsene subito in apertura, ex abrupto, spiazzando lo spettatore circa l'effettivo contenuto formale del film e convogliando quindi l'ambigua sensazione di un rapporto instabile fra spettatore e opera, sia perché costituisce un ottimo esempio della sintesi espressiva del regista, in questo caso impiegata, quasi dichiarazione d'intenti, per impostare e convogliare in una prima immagine i temi e la "materia" di cui il film tratterà: l'invadenza, fin nei recessi del quotidiano, dei nuovi media, in particolare dell'immagine televisiva, la corporeizzazione della tecnologia, risultato di un'inedita interazione fra uomo e macchina, il potere persuasivo, fascinatorio, metamorfizzante del visuale, esercitato primariamente nelle oscure zone psichiche del desiderio.
Lo sguardo accattivante di una donna e il tono suadente della sua voce sono diretti verso la macchina da presa, dando così la sensazione di un invito rivolto allo spettatore, almeno fino al momento in cui si rivolge personalmente al protagonista della vicenda, chiamandolo confidenzialmente per nome: Max Renn (JAMES WOODS), lo intuiamo, giace addormentato e la trasmissione televisiva si rivela essere nient'altro che un messaggio-sveglia da parte della segretaria. Nonostante la sua apparente natura anodina, la scena che segue è meritevole di un'analisi ravvicinata; sia perché diffonde suggestioni visive che permeeranno tutto il film, sia perché presenta, paradigmaticamente, il tema centrale e ineludibile dell'opera: l'inevitabile incertezza epistemologica dell'uomo contemporaneo nei confronti della polimorfa natura delle immagini in movimento.
La macchina da presa si sofferma per un po' sul viso della donna che, nonostante il proposito professionale del suo discorso, usa una mimica e un tono apertamente maliziosi, densi di doppi sensi sessuali e provocatorie avance erotiche. La natura fantasmatica ed evanescente della sua apparizione sullo schermo non censura il livello emotivo e personale delle dichiarazioni, stabilendo un'enigmatica assimilazione fra il visus mediatico del soggetto e le recondite, intime pulsioni comportamentali dell'individuo (della rivoluzionaria sovrapposizione ontologica tra corpo umano e corpo mediatico si avrà un più pregnante esempio nella scena del talk-show). La valenza paradigmatica della sequenza è fuor di dubbio: CRONENBERG stabilisce fin d'ora i termini di un discorso che intende mostrarci l'inarrestabile "tendenza - divenuta poi evidente in tutto il mondo occidentale - a sussumere il reale sub specie televisiva"; tendenza in questo caso ben rappresentata dall'uso ostentatamente privato e personale del mezzo comunicativo, che sembra così esautorato della sua ormai obsoleta natura pubblica e sociale.
Una lenta panoramica laterale introduce pian piano il disordinato ambiente, sorta di garçonniere postmoderna, in cui vive il protagonista, che, sempre disteso sul divano, spegne la TV tramite un telecomando nascosto nel palmo della mano (anticipando ben più eclatanti e letterali innesti uomo-macchina); l'ultima inquadratura è un primissimo piano di Max, ancora assopito. Il regista indugia a lungo sul volto addormentato dell'uomo perché lo stacco alla scena seguente risulti sensibilmente marcato; lo vediamo affaccendarsi in cucina mentre prepara la sua improbabile colazione.
Più che sull'efficace senso descrittivo del regista - la confusione delle sue abitudini alimentari è correlativo oggettivo adeguato alla sua confusione mentale di "divoratore di immagini, un vero e proprio tossicomane della televisione, prototipo dello yuppie americano" - conviene soffermarsi sulla conseguenza ambigua dello stacco: l'ellissi della presunta consequenzialità d'azione incoscienza-risveglio prospetta la possibilità di una visio per somnum da parte del protagonista di tutte le vicende successive del racconto, oltreché di un sabotaggio, innescato fin da subito, di tutti i dispositivi d'ancoraggio dello spettatore verso un punto di vista unificante la narrazione. La pluralità labirintica dei punti di vista comincia a configurarsi come fondamento rappresentativo della pellicola, visto che i procedimenti linguistici adoperati per attuarla saranno sovente ripetuti all'interno del film, condividendo la fattura stilistica di quelli appena descritti, ma appariranno ben più riconoscibili e patenti solo grazie all'esemplarità spettacolare d'alcune scene-chiave nell'ormai avviato flusso narrativo del film.

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Informato, dalla segretaria-TV, di avere un appuntamento per il possibile acquisto di un serial pornografico giapponese, Max dà un veloce sguardo a del materiale fotografico gettato alla rinfusa sul suo tavolo da cucina, probabilmente foto di scena tratte dalla serie in questione. Mentre le sfoglia, senza manifestare peraltro particolare interesse, non può fare a meno di macchiarle dei residui rossastri della sua colazione (traccia spermatica di patologico voyeur? suggestione visiva di contaminazioni fra organico e inorganico?). L'appuntamento ha luogo in un fatiscente albergo della città; mentre i produttori insistono perché Max visioni tutte le puntate del serial in ordine cronologico, questi chiede di sbirciare solo l'ultima, convinto che, ai suoi spettatori, della storia importi poco o nulla.
Una volta raggiunta la sede di "Canale 83", Max, in qualità di direttore di rete, commenta il video insieme a due suoi colleghi che lo giudicano debole e troppo elegante, per Max è addirittura troppo "…fiacco, c'è bisogno di qualcosa di forte, che spacchi". La macchina da presa, spostandosi lentamente dall'inquadratura dei tre, scivola, noi con lei, fin dentro il televisore che rimanda le immagini di "Samurai Dreams", blando titolo del serial. Bastano parchi movimenti della macchina da presa, per generare solidi slittamenti percettivi nello spettatore; in questo caso la penetrazione dello sguardo all'interno del filmato giapponese (riprodotto con perizia emulativa d'effetti flou e immagini morbide) e il conseguente controcampo, coincidente con un "impossibile" sguardo in soggettiva della TV, veicolano la sottile impressione di un liquido compenetrarsi tra piani di realtà. Viene da pensare che i personaggi del film siano agiti dalle immagini televisive, che trovino cioè una loro dimensione funzionale, soltanto quando possono direttamente interagire con queste; non si esiste, sembra suggerire il regista, se non si esercita un medium: per adesso sono solo i primi segni di un assorbimento biunivoco fra consistenza ontologica dell'essere umano e dell'essere TV.
Dall'ufficio di Max ci spostiamo su una terrazza, dove il suo tecnico di fiducia gli racconta di essere riuscito a captare un segnale che trasmette immagini di brutale violenza e di sevizie inaudite: il segnale si chiama Videodrome; Max ne è profondamente affascinato. Le immagini sgranate e sporche del segnale fanno da pendant col sottile fascino perverso della trasmissione. Il potere fascinatorio dell'immagine si configura direttamente proporzionale ai suoi contenuti di sessualità polimorfa: argomento che avremo modo d'affrontare più consistentemente nel corso della nostra analisi.

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Per descrivere la scena successiva, quella del talk-show, di suggestiva pregnanza antropologica, ci serviremo dell'intervento di CANEVACCI, così come riportato nel suo libro Antropologia della comunicazione visuale: "Uno studio televisivo normale, in attesa di iniziare un dibattito sulla pornografia, la violenza e le responsabilità del mezzo televisivo. Max…sta seduto su una poltrona, accavalla le gambe e si accende una sigaretta, dicendo qualcosa di circostanza sull'emozione che prende sempre nei dibattiti. Poi si volta per offrire una sigaretta alla sua interlocutrice. Sempre in piano sequenza, la macchina da presa si sposta alla ricerca della persona fino ad inquadrare la televisione di scena, dove una bella donna vestita di rosso si volta verso di lui e dice: "No, grazie". Un successivo stacco di montaggio mostrerà il set dove la donna vestita di rosso - Nicki (DEBBIE HARRY) - sta a fianco di Max e della conduttrice. La sequenza dura poco più di quindici secondi, ma nella sua sintassi e nella sua, per così dire, antropologia visuale marca una pietra miliare. Segna un passaggio da un tipo di sentire il cinema ad altre forme della comunicazione visuale. Il mezzo è ancora lo stesso - il cinema, appunto - ma esso spinge verso qualcosa di totalmente altro. La donna in rosso rinchiusa nello schermo televisivo si "fa vedere" secondo un nuovo canone percettivo che sottintende o sollecita una diversa capacità di decodifica. La sequenza segnala che la sua è una presenza essenzialmente visuale prima che reale. Il reale - se sopravvive - arriva dopo[…].
Dalla scena…appena descritta si avverte che il regista sta esplorando un modulo narrativo del tutto nuovo. Una semiotica filmica dove i limiti (o i fili) tra i codici realistici e i codici visuali tendono a confondersi e, di conseguenza, a dislocare le abitudini percettive dello spettatore. Ed è il primo a farlo, con un forte anticipo su un processo che si diffonderà con forza solo negli anni Novanta: quel gioco di interfacce tra realtà e finzione che ora si chiama realtà virtuale[…].
Ma sta nel linguaggio visuale espresso da CRONENBERG il vero senso dell'innovazione. Nella sua antropologia della comunicazione, a partire da questo breve piano sequenza - segno di una nuova cultura visuale - che il regista riesce non solo a cogliere in anticipo, ma anche, almeno in parte, a costruire - il rapporto tra arredo urbano, dialogo tra persone, sistema percettivo, immagini-TV si mescola. Ciascuno di essi si innesta in tutti gli altri. È la persona-TV che diventa soggetto. Un "farsi vedere" presente tanto quanto una persona-corpo".
Le conclusioni di CANEVACCI rappresentano un importante passo verso la definizione di una nuova disciplina interpretativa, un passaggio obbligato, viste le modalità di trasmissione attuali dei dati visuali, dalla vecchia definizione di antropologia visuale a quella nuova di antropologia della comunicazione visuale. Prendendo spunto dalle teorizzazioni formulate a riguardo da MARGARETH MEAD, poi riprese in sede divulgativo-didattica da SOL WORTH, tale passaggio implica uno spostamento di prospettive che guardano al materiale antropologico enfatizzandone la sua natura linguistica all'interno di un processo comunicativo globale, comprendente non solo l'autore del film ma anche i suoi spettatori e il contesto culturale entro cui tale comunicazione avviene.
Seguendo tale input si può guardare a Videodrome come ad un saggio antropologico sulle mutazioni culturali - uno scontro tra natura e cultura, tra corpo e mente - indotte dalla pervasiva complessità della comunicazione visuale. Un testo-ibrido, come sembra essere ibrido l'attuale sostrato costitutivo della comunicazione massmediale che ingloba in un unico magma referenziale diverse realtà ontologicamente differenziate, ma che finiscono desemantizzate e ricomposte in un nuovo orizzonte virtuale. Con CRONENBERG non è produttivo e stimolante, in altre parole, ricorrere ad un approccio antropologico canonico; è semmai sul metalinguistico che conviene soffermarsi, coinvolgendo nel progetto la nostra ineluttabile funzione di decodificatori di codici iconici, per un'indagine visuale che sia quanto più antropologicamente rispondente alle attuali realtà del "villaggio globale".
La sequenza del talk-show prosegue: al Rena King Show è invitato, oltre a Max e a Nicki, il professor O'Blivion (JACK CRELEY), novello apostolo dei media. L'intervento di quest'ultimo è registrato in video, una presenza quindi puramente virtuale e come tale sembra rendere pertinente il contenuto predicatorio del suo contributo al dibattito: "Lo schermo televisivo è l'unico vero occhio della mente umana. O'Blivion non è il mio vero nome, ma un nome TV. Nient'altro. Presto tutti avranno nomi-TV speciali, nomi studiati con cura".
Molti hanno citato MARSHALL MCLUHAN come referente ironicamente utilizzato dal regista per la costruzione del personaggio in questione; ma come non pensare invece, al di là della riconoscibilità di certi assunti del massmediologo canadese messi in bocca al professore, alla natura archetipica del concetto di simulacro su cui ha scritto pagine illuminanti JEAN BAUDRILLARD e a cui dà corpo in questo caso la figura di O'Blivion. Lontano dal tono velenoso e dal doloroso rancore delle argomentazioni del filosofo francese contro il degenerare estetizzante della cultura occidentale, CRONENBERG fa invece del personaggio del professore un ironico, sebbene allarmante, esempio delle fatali proiezioni simulacrali, consustanziate alla nuova propensione mediologica dell'essere.
Nonostante la valenza apocalittica delle argomentazioni tirate in ballo da O'Blivion, Max e Nicki intraprendono un pedestre gioco provocatorio sulla moralità dell'utilizzo televisivo. Per Max le immagini violente, trasmesse dalla sua TV, fungono da valvola di sfogo per le frustrazioni e le fantasie represse dalla società costituita, al che Nicki, interprete di un pensiero ipocritamente conformista, confessa di sentirsi "costretta a vivere in uno stato di eccitazione anormale". La replica di Max non si fa attendere: la tendenza alla provocazione sembra essere endemica nell'individuo, se è vero che la stessa Nicki indossa un appariscente vestito color rosso fuoco. Alla fine del dibattito Max invita a cena Nicki, ormai condiscendente al corteggiamento scoperto dell'uomo. Il sottofondo maschilista dell'intera scena è riscattato da una constatazione generale ben più profonda ed interessante: non sembra esserci spazio per una qualsivoglia moralità, all'interno di un universo comunicativo che tanto più rivela la sua reale natura quanto più agisce sul rimosso e sul perverso.
Di nuovo con Harlan (PETER DVORSKY), il tecnico della sua TV, Max scopre che il segnale di Videodrome è emesso da una stazione di Pittsburgh, e non da un lontano paese orientale come si pensava in un primo momento (il "virus" infettivo si trova nel cuore del sistema capitalistico delle società più progredite). Per intanto il fascino delle immagini perverse del programma comincia ad avere un pericoloso potere ipnotizzante sulla psiche del protagonista.

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Dopo una breve visita negli studi radiofonici dove lavora Nicki, che ammicca maliziosamente a Max proprio mentre conversa al telefono con una donna che piange i suoi problemi personali, cercando una voce amica che la consoli - ennesimo esempio dell'affrancamento da ogni tipo di valenza morale da parte di chi opera nei media o, per meglio dire, dell'inevitabile affiorare di una nuova moralità introdotta dalla comunicazione - i due si recano a casa per visionare le immagini di Videodrome. La scena della relazione sadomaso che si avrà di lì a poco fra Max e Nicki prepara alla prima, compiuta, evidente allucinazione del film.
Il tramite dell'allucinazione, del sovvertimento di coscienza è identificato nel desiderio, in questo caso quello sessuale. L'immagine fa presa sul consenso intimo dell'individuo di veder reificati e riprodotti su teleschermo i propri sogni e le proprie ossessioni. La mortificazione del corpo - Max infila uno spillo nell'orecchio di Nicki - è preludio alla sublimazione elettronica della "nuova carne". Le modificazioni antropologiche risultanti dal consumo di immagini TV implicano alterazioni non soltanto comportamentali ma addirittura corporee. Fuor di metafora, la capacità comunicativa, generata dai nuovi media, sollecita e plasma nuove modalità di ricezione, differenti organi di fruizione, inedite esperienze sensoriali, attivazioni sinestetiche di decodifica.
CRONENBERG inquadra da lontano i corpi nudi dei protagonisti distesi sul letto, in fondo occhieggia il televisore ancora acceso, inconfessato trompe-l'oeil verso la vertiginosa zona morta della transmutazione mediatica, poi stacca sul primo piano di Max, desiderio fattosi agente fisico di violenza, per riattaccare finalmente sul totale. Ma la composizione dell'inquadratura adesso è cambiata. Come osserva giustamente GIANNI CANOVA: "…prima i due corpi stavano su un lenzuolo rosso immerso nel nero circostante, ora al centro dell'immagine c'è un quadrato nero circondato da una luce color rosso sangue. Come se si fosse passati da un negativo ad un positivo fotografico, o viceversa".
Max è stato fatalmente fagocitato da Videodrome; attorno a lui c'è adesso il vuoto della videoarena in cui è costretto a giocare, preda di una vertigine che gli viene dall'aver perso l'usuale dimensione sensoriale, le rassicuranti coordinate interpretative della realtà. Si avvicendano allora, dilatate ed estenuate dal ralenti, varie focalizzazioni: panoramiche descrittive del narratore, soggettive allucinatorie di Max, sguardi in macchina del protagonista a sollecitare una risposta metalinguistica da parte dello spettatore; un montaggio schizoide di registri della visione contrappuntato da un metallico sospiro, rantolo sintetico ma di ferina sensualità. Tutta la sequenza è caratterizzata da una "erotizzazione" sinestetica degli elementi in scena, pare intrinsecamente informata da una diffusa dominante di sensualità panica. La conseguenza ineluttabile della sequenza descritta ha qualcosa di radicale: costringere lo stesso spettatore del film a condividere lo sconcerto e il disorientamento percettivo provato dal protagonista sulla propria pelle. Una volta scattata la pulsione desiderante dell'agente scopico, le immagini ne sono inevitabilmente "infettate", rimandando una pseudo-realtà, che ingloba lo sguardo dello spettatore privandolo di ogni punto di riferimento.

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Dopo essere stato in riunione nel suo ufficio con un'anziana produttrice di filmetti soft-core, materiale giudicato troppo poco contemporaneo da Max ("voglio qualcosa che mostri davvero quel che succede sotto le lenzuola") - non c'è mediazione o filtro sensuale che tenga, nell'epoca del consumo immersivo e virtuale dell'entertainment - e dopo averla incaricata di ottenere informazioni particolareggiate su Videodrome, il protagonista ha un veloce colloquio con Nicki, in partenza per Pittsburgh. Il suo tentativo di dissuaderla dal partecipare al misterioso programma non ha nient'altro effetto che quello di eccitarla al tal punto da bruciarsi il seno con una sigaretta: la sua è un'inarrestabile "scorporalizzazione", è carne che si sublima in fumo, improcrastinabile ascesa verso la transustanziazione della vecchia realtà fisica in una nuova eminentemente visuale; il lento fluire di Nicki verso la morte della vecchia carne per quella nuova, estremo rito di passaggio di una società in trasformazione, sta trascinando inesorabilmente con sé anche Max.

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Frattanto, in un ristorante da "mille e una notte", falso postribolo orientale, dove danzano finte odalische (luogo che incarna vari simbolismi dell'immaginario esotico-sensuale, moltiplicando la dialettica falsità/seduzione in infinite fughe prospettiche), Masha (LYNNE GORMAN), la produttrice incaricata di investigare su Videodrome, avverte che quello che si vede nel programma è tutto reale - inquietante e letterale parafrasi della "morte al lavoro" di COCTEAU? - e che la trasmissione sembra avere "una sua filosofia". Consigliato di contattare il professor O'Blivion, l'unico che pare in grado di sapere qualcosa di più su Videodrome, Max si reca nella sede della "Cathode Ray Mission", sorta di organizzazione umanitaria ed assistenzialista fondata dalla figlia dell'accademico. L'enigmatica Bianca O'Blivion (SONJA SMITS) lo introduce in un ambiente dove innumerevoli homeless e drop-out, ognuno all'interno del suo séparé, guardano la TV, sperando di curarsi da una malattia per insufficiente uso della televisione.
La visionarietà della scena riecheggia qualcosa delle atmosfere cyberpunk, tutta una letteratura che ha visto il nostro prossimo futuro determinato dalla presenza immane della tecnologia, capace di modificare il paesaggio esteriore come quello interiore dell'uomo. In tal senso come non pensare ai nuovi landscape metropolitani creati dalla fervida fantasia del JAMES GRAHAM BALLARD di The Atrocity Exibition (La mostra delle atrocità, 1970) o del WILLIAM GIBSON di Neuromancer (Neuromante, 1984), inquietanti e necessarie perlustrazioni sulla nuova consistenza cibernetica dello scenario-uomo? C'è un intero filone che, facendo proprie le elaborazioni sull'inner space introdotte da BALLARD e dalla new-wave anglosassone, traccia un solco referenziale di estrema fertilità. Una fantascienza "interiore", i cui paesaggi e le cui ambientazioni sembrano riflettere, esternandoli, le sconvolgenti dimensioni intime, le profondità archetipe dell'uomo, di cui la tecnologia e gli spazi esterni paiono una sorta di proiezione simbiotica, una estensione strutturale. Una tecnologia di configurazione ergonomica all'interno di un panorama dalle propaggini antropomorfiche. Lo stacco dalle narrazioni siderali, dalle descrizioni di viaggi interstellari della science-fiction classica, impegnata a descrivere la conquista "frontieristica" di altri mondi, l'ottimistica interazione con esseri alieni o le paranoie degli incontri ravvicinati, non potrebbe essere più marcato. L'unica vera frontiera, il vero alieno con cui confrontarsi è l'essere umano, con gli abissali recessi della sua mente, i misteri del suo corpo in mutazione, la sua "naturale" inclinazione verso la macchina, il bisogno irrefrenabile di un'interattività orgiastica e multi-organica con la téchne.
Dalla letteratura alla teoria antropologica il passo è breve: MARSHALL SAHLINS prospetta rilevanti e significative dinamiche fra paesaggio ed elaborazione culturale, concludendo assiomaticamente il suo studio con l'idea che "la cultura stabilisce il suo ambiente"; è partendo da presupposti coincidenti che SHARON ZUKIN sottolinea la stretta relazione egemonica che si va costantemente instaurando tra cultura visuale e nuovi panorami metropolitani: le architetture di città come Miami. Las Vegas o Los Angeles, turgide di cartelloni pubblicitari incorporati agli edifici, di maxi-schermi che diffondono incessantemente scenari virtuali sovrapponentesi a quelli reali, fino all'esempio estremo dei theme-park disneyiani, immaginario consumistico organizzato in agglomerato urbano, sono tutte costruite sul potere del dreamscape, un panorama esplicitamente prodotto per il consumo visuale. Rappresentano vale a dire lo scenario ideale della postmodernità e, nello stesso tempo, il contesto dove, con maggior forza, è possibile vedere concretamente l'efficacia dei nuovi processi comunicativi. La compenetrazione fra Videoscape (visione di un paesaggio urbano sintetizzato e miscelato nei media) e Visualscape (rappresentazione architettonico-funzionale della città mutuata da codici estetici) è quanto mai totale.
Le strutture urbane di certe città nordamericane contemporanee sono una stratificazione plurima di feticci visuali e come tali vengono introiettate da CRONENBERG, che se ne serve vedendole come un'eccellente riserva semiotica. In tutta la sua filmografia, il regista canadese ha sempre inscritto le sue storie all'interno di cornici metropolitane ben definite; nei suoi primi lungometraggi Toronto è utilizzata come sfondo alienante ed oppressivo, correlativo architettonico della rigidezza istituzionale della società, elemento castratore delle pulsioni sotterranee ed eversive dell'individuo (Stereo, The Parasite Murders, Rabid); poi, abbandonando l'utilizzo di scenografie naturali, progetta spazi e mondi che, anche se immaginari e ricostruiti, paradossalmente acquistano in verosimiglianza antropologica.
Tutti gli ambienti della "Cathode Ray Mission" sono in questo senso esemplari di un modo di guardare all'arredo urbano come ad una dinamica interfaccia fra il reale e l'immaginario, un eccellente riflesso espressivo di una prossemica filmica che esplora le numerose variazioni configurazionali che legano l'uomo contemporaneo alle sue ambienze pseudo-virtuali. Se nel cinema di fantascienza degli ultimi anni si sono visti numerosi modelli di possibili landscape della futuribile civiltà cibernetica - Blade Runner e Brazil (id., 1985) fondano gran parte della loro suggestione visiva sulla spettacolare complessità del proprio impianto scenografico - in Videodrome la costruzione del décor risponde a criteri più marcatamente metalinguistici, non connotandosi mai come mero sfondo dell'azione, bensì innescando sottili rispondenze ed interazioni con i personaggi che vi partecipano.
La sequenza descritta più sopra, ad esempio, bene esprime il carattere "globalizzante" e a mosaico dell'esperienza mediale, "la grande tavolozza del mondo" in cui tutto confluisce una volta che si è entrati a far parte della rete comunicativa, oltre a suggerire inequivocabilmente la totale aderenza fra la produzione culturale e simbolica della società attuale e la sua conseguente, immediata, quasi sincrona immissione nelle elaborazioni architettonico-ambientali.

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Ottenuta la promessa, da parte di Bianca, di una cassetta videoregistrata contenente un intervento in video del professore che parla di Videodrome - il video essendo il suo unico mezzo di comunicazione, dal momento che si rifiuta da anni di conversare con chicchessia ("Il monologo è l'unico tipo di discorso che lui sa fare") - Max se ne ritorna al suo appartamento. E' qui che la sua segretaria, che per un attimo gli appare sotto le sembianze di Nicki, ipostasi delirante della pulsione di morte, miraggio psichedelico che annuncia l'attuata compenetrazione del virtuale sul reale, gli consegna la cassetta di O'Blivion. Cassetta che pulsa e si gonfia, come cosa animata, corpo desiderante e sensuale che chiede di essere inserito nel videoregistratore per un coito elettronico: è l'avvenuta corporeizzazione dei massmedia, la fase aurorale della simbiosi fra l'organico ed il tecnologico attuata per mezzo del potere metamorfizzante della comunicazione visuale.
Ormai in preda ad un vero delirio allucinatorio, Max si sistema per visionare la cassetta. Il monologo di O'Blivion può avere inizio: "La lotta per il possesso delle menti in America dovrà essere combattuta in una videoarena, col Videodrome. Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell'uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione". Monologo che si trasforma ben presto, seguendo un procedimento che abbiamo avuto già modo di analizzare nella prima scena del film, in un dialogo virtuale con Max.
Il professore racconta che è preda di video-allucinazioni più reali della realtà, che Videodrome gli ha procurato un terribile tumore al cervello e che Max sta condividendo la sua stessa esperienza. Mentre si rivolge direttamente al protagonista, O'Blivion è strangolato in diretta da una figura incappucciata, che si rivela essere Nicki, oramai diventata un tutt'uno con Videodrome, del quale rappresenta il lato sensualmente intrigante e provocatoriamente fascinatorio: "Vogliamo te, Max! Vieni da me!"
E' solamente l'incipit della sequenza più celebrata e analizzata dell'intero film; una probabile scena madre dell'intero universo cinematografico cronenberghiano. Vi confluiscono i temi della mutazione e del fascino mistificante e spiraliforme dell'immagine, la corporeizzazione dell'inorganico, l'intreccio indissolubile dell'umano e del tecnologico, la deriva semantica di segni eterogenei inglobati in nuovo immaginario. La visualizzazione spettacolare di tali suggestioni è condotta con distacco ironico e straniata partecipazione. CRONENBERG si limita a mettere in scena uno dei tanti slittamenti del possibile nella società delle immagini.
Il primo piano delle labbra di Nicki occupa tutto lo schermo televisivo, l'intero apparecchio si gonfia protendendosi verso l'esterno. Max inserisce la sua testa-fallo nello schermo TV-vagina, l'irresistibile amplesso elettro-biologico segna il definitivo ingresso del protagonista in un universo contiguo al reale, fatto di sessualità multi-organica e visionarietà diffusa. Tutte le funzioni dei sensi umani sono al servizio della riproduzione mediatica in un incessante accoppiamento di realtà difformi. In un certo senso è come se CRONENBERG attualizzasse FREUD calandolo nella multimedialità e così rendendolo uno stimolante e produttivo punto di riferimento teorico per le sconvolgenti eterotopie corporee del nuovo uomo-TV, radicalmente condizionato in tutte le sue espressioni dalla sessualità polimorfa ed avvolgente del flusso comunicativo. Quanto al sostrato estetico della sequenza, esso richiama le forme più radicali dell'arte moderna, dal movimento cyberpunk fino alle avanguardie visive - MAN RAY, FRANCIS BACON, ANDY WARHOL - palesemente nutritosi in precedenza di suggestioni situazioniste - La société du spectacle (La società dello spettacolo, 1967) di GUY DEBORD. Un'arte che è capace di sporcarsi, utilizzando materiali "bassi" e peregrini, rinunciando al proprio storico statuto di dispositivo metaforico e sublimante della realtà.
JAMESON, riferendosi ad un fenomeno estetico-culturale, fondante l'attuale società postmoderna, saturata com'è da segni e immagini, ha coniato, con spirito beffardo ma terminologia appropriata, il neologismo signflation per significare una decadente inflazione e proliferazione semiologica che cosparge ormai l'intero tessuto comunicativo. Oltre alle discipline filosofiche, anche l'attuale antropologia sta riflettendo su tale fenomeno che pare essere in costante aumento: il processo di desimbolizzazione della cultura. Nel simbolo permane l'idea che rimanda a qualcos'altro tramite l'analogia, la metafora, l'allegoria. Un processo di ricongiungimento con una totalità perduta. Uno spostamento che riunifica il segno ad un concetto astratto. Nella società attuale questa dimensione spaziale si è frantumata. Il simbolo si unisce immediatamente alla cosa, il segno all'atto.
STANLEY DIAMOND, in un saggio di antropologia linguistica con implicazioni che si riverberano facilmente anche nel campo dell'estetica, ha scritto: "nella nostra società, i simboli collassano in segni, in quanto impoveriti nel linguaggio di ogni giorno". Il significante acquista automaticamente la dimensione di significato. Anche l'arte risente di questo stato di cose, rinunciando al suo offuscato apparato di obsolete figure retoriche. L'intento metaforico dell'artista è come prosciugato dall'immanenza diffusa dei segni. CRONENBERG, tramite la penetrazione dell'uomo nello schermo catodico, non allegorizza, non allude ad un superiore livello di riferimento, ma si limita a mostrare in tutta la sua consistenza fenomenologica una potenziale combinazione del reale che è già in atto. Videodrome è il grado zero della metafora, poiché tutti i segni del film non rimandano ad altro che a se stessi. Stilizzazione configurazionale di un inevitabile prolungamento del possibile. Un possibile che prevede come sua rappresentazione l'accostamento disordinato di segni appartenenti ad aree fra loro eterogenee, sviluppando un coacervo desemantizzato di meri significanti.
Ma più che servirsi direttamente di un approccio filosofico-interpretativo di carattere semiologico, più che richiamarsi, in sostanza, alle formulazioni di un onnipresente BARTHES, a CRONENBERG interessa sia l'effetto istantaneo del segno, la sua imprevedibilità semantica, il suo essere poliforme, la sua capacità di accumularsi indifferentemente con altri materiali, generando inquietanti sovrapposizioni ontologiche sia, più in generale, la natura mutagena del visuale, il processo di inedita incorporazione sensoriale, e quindi di interpretazione critica, dello spettatore rispetto al medium, con effetti sconvolgenti proprio sul piano della fruizione.
Sì è già fatto cenno alla tendenza cronenberghiana di corporeizzare il tecnologico, ma le attuali modalità di sviluppo della comunicazione visuale suggeriscono a CRONENBERG di spingersi ancora più in là, di tentare, con una proposta artistica di straordinaria efficacia, una pan-corporeizzazione dell'inorganico, di far partecipare l'arredo urbano, le merci, il visuale alla stessa dimensione individualistica dell'essere biologico, una "feticizzazione" del mondo generata da un'avviluppante rete massmediale e regolata secondo i principi di una nuova economia di scambio. Una rete che è definita da parametri economici del tutto nuovi, per analizzare i quali è condivisibile il ricorso a teorizzazioni multidisciplinari in cui la figura della merce visuale travalichi l'opaca e prosaica definizione di semplice materiale di scambio per raggiungere una inedita configurazione di soggetto biografico, di fantasmatico feticcio biologico.
Non ci sorprende più di tanto che, una volta fatto finalmente entrare da Bianca nell'ufficio di O'Blivion, Max scopra la dimensione puramente mediatica del professore, ucciso dal tumore allucinatorio di Videodrome, ma vivente grazie alle videoregistrazioni dei suoi discorsi, conservate in cassette VCR, riprogrammabili all'infinito e perciò utilizzabili per ogni evenienza. È il tramonto definitivo del cursus biologico dell'individuo; la morte trova il suo annullamento nella riproducibilità coatta operata dal mezzo TV, che tramuta l'immanenza dell'essere in puro spiritus visivo, un'essenza dispiegata iperbolicamente in tanti video-messaggi, quante sono le possibilità funzionali degli stessi, un'eterna emissione di monologhi pre-registrati pronti ad essere utilizzati come se ci si trovasse di fronte ad un'ininterrotta diretta TV. Le coordinate spazio-temporali vengono piegate alla natura ubiqua e transeunte dell'emittenza televisiva.
Ecco allora che lo studio del professore, visto come una riserva inesauribile di simboli artistico-religiosi inflazionati e mortuari - una dimensione funerea che trova l'acme nel proibito sancta-sanctorum in cui, a mo' di urne funerarie delle chiese shintoiste, sono raccolte le testimonianze solipsistiche del professore - rappresenta un valido parallelo scenografico con l'insospettabile côté metafisico assunto dalla natura cultuale e "mistica" della comunicazione visuale, esempio di religione laica che si diffonde tramite inediti ritualismi, i cui nuovi adepti sono i condiscendenti fruitori dell'immagine televisiva.
Lo stretto rapporto fra nuove tecnologie e forme di religiosità originali è tema à la page - esempio celebre il libro del fisico FRITJOF CAPRA The Tao of Physics (Il tao della fisica, 1975), prototipo, sotto forma di saggio divulgativo, di un sentire che sfocerà nell'indistinto fenomeno new-age, spiritualizzazione d'accatto dei fondamenti religioso-consumistici del mondo attuale - oltreché di stretta attualità, vista la crescente invadenza delle cosiddette chiese catodiche, che si servono di strategie retoriche desunte dai mezzi di comunicazione di massa, per invadere quante più frequenze possibili con le loro prediche TV. Pratica che è produttiva ed efficace - c'è il beneplacito di una comprovata rispondenza statistica - oltreché estremamente diffusa, soprattutto in Usa e in alcuni paesi latino-americani, ed attuata principalmente da parte di certe confessioni protestanti, specie quelle evangeliche.

 

Marco Rambaldi

 

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